Ibridi di stelle e buchi neri mai visti prima nell'universo primordiale

Divorano materia ma emettono anche luce. Spunta una nuova ipotesi su dei misteriosi puntini rossi che il telescopio spaziale James Webb di Nasa, Agenzia Spaziale Europea e Canadese ha identificato nell'universo primordiale.
Potrebbero nascondere, come riporta l’Ansa, degli oggetti cosmici completamente nuovi e mai visti prima. Si tratterebbe di una sorta di ibrido tra stelle e buchi neri, ovvero gigantesche sfere di gas caldo così dense da assomigliare a stelle ma alimentate da buchi neri supermassicci che divorano materia ma emettono anche luce.
Puntini rossi nell’universo primordiale
A sostenerlo è un nuovo studio appena pubblicato sulla rivista Astronomy and Astrophysics e guidato dall'Istituto Max Planck per l'astronomia di Heidelberg, in Germania. Questi nuovi oggetti cosmici potrebbero essere l'anello che manca per spiegare la formazione dei giganteschi buchi neri che vediamo oggi al centro delle galassie.
Fino a questo momento si pensava che i puntini rossi scoperti da James Webb fosseri galassie incredibilmente antiche e già molto mature nell’universo primordiale, che mettevo già in discussione molte teorie sulla loro formazione. Secondo i ricercatori guidati da Anna de Graaff, questi puntini però sono comunque troppo luminosi. Le loro stelle dovrebbero essere ammassate a una densità impossibile.
Modelli scientifici nuovi per un caso estremo
Nel luglio 2024 i ricercatori hanno individuato un oggetto particolarmente massiccio, il caso più estremo. "Le sue proprietà estreme”, spiega de Graaff, “ci hanno costretto a ricominciare da capo e ideare modelli completamente nuovi".
La luce emessa evidenzierebbe che non si tratta di un denso ammasso di stelle ma di un unico oggetto gigante, un buco nero che attira materia a una velocità tale da avvolgersi in una sfera di gas incandescente.
"Questa è la migliore idea che abbiamo e la prima che davvero si adatta a quasi tutti i dati”, conclude Joel Leja dell'Università Statale della Pennsylvania, co-autore della ricerca, “quindi ora dobbiamo svilupparla meglio".